Quando la NBA voleva normalizzare Allen Iverson
Nel 2005 la NBA impose giacca e cravatta. Iverson rispose con treccine, tatuaggi e orgoglio. L’aura di The Answer era troppo forte per essere messa a tacere
All’inizio degli anni 2000, la NBA era in cerca di una nuova identità. Dopo il boom mediatico degli anni ’90 targato Michael Jordan, la lega si ritrovava a fare i conti con un declino di immagine, episodi controversi dentro e fuori dal campo e un pressing sempre più forte da parte di sponsor e media. Serviva ordine. Pulizia. Controllo. Almeno all’apparenza.
In quegli stessi anni, Allen Iverson era tutto ciò che la lega non riusciva – e forse non voleva davvero – contenere. Cornrows, tatuaggi ovunque, catene d’oro, felpe larghissime e pantaloni oversize: A.I. non era solo un fenomeno cestistico, era l’incarnazione vivente della cultura hip-hop dentro la NBA. E non chiedeva il permesso a nessuno.
Nel 2005, il commissioner David Stern decise di intervenire con un’azione netta: introdusse un dress code “business casual”, obbligando i giocatori a indossare giacche, pantaloni eleganti e scarpe da ufficio in tutte le apparizioni ufficiali. L’obiettivo era chiaro: dare un’immagine più rassicurante e professionale della lega. Ma per molti fu anche un modo per neutralizzare un’identità culturale che stava diventando troppo visibile.
Iverson fu tra i primi a protestare. Per lui, il suo look non era una posa, ma un’espressione autentica di sé stesso:
Mettere uno smoking a qualcuno non lo rende automaticamente una brava persona. Anche un assassino può indossare un abito elegante, ma resterà comunque un assassino
Allen Iverson
Il suo stile “thuggish” – termine spesso usato con connotazioni razziste e stereotipate – era radicato nelle sue origini, nella sua storia personale. Restare fedele a quella immagine significava non tradire chi era, anche con milioni di dollari in tasca.
Il dress code generò un dibattito acceso: davvero si trattava solo di “buona immagine”? O era piuttosto un modo per rendere l’NBA più appetibile ai mercati e meno ingombrante culturalmente, riducendo l’espressione personale dei suoi protagonisti?
Col tempo, però, qualcosa cambiò. I giocatori iniziarono a reinterpretare proprio quel dress code come mezzo di espressione: completi firmati, outfit studiatissimi, look eccentrici e personalissimi. La passerella del pre-partita divenne uno spazio creativo, e lo “stile NBA” si trasformò in una tendenza globale, capace di influenzare moda, streetwear e nuove generazioni.
Allen Iverson, senza forse volerlo, aveva aperto la strada. Il suo anticonformismo, inizialmente osteggiato, era diventato ispirazione. Oggi molte superstar si esprimono fuori dal campo in modo vistoso, personale, creativo. Eppure, in un curioso paradosso, Iverson stesso ha più volte criticato i look delle nuove leve. Se fosse lui il commissioner, ha detto, la NBA tornerebbe ad avere un dress code.
Forse perché quello stile, oggi sdoganato, allora gli costò caro. Ma senza di lui, probabilmente, la libertà espressiva di oggi non esisterebbe nemmeno.