I più grandi What If della storia NBA
Promesse brillanti, ma sfortunate: le storie incompiute dei più grandi What If della storia NBA
Il parquet è severo, una giungla dove il talento può risplendere o spegnersi in un istante. Nel corso delle stagioni, la NBA ha visto emergere promesse luminose, giovani fenomeni capaci di cambiare il destino di una franchigia, ma la sfortuna ha trasformato molti di loro in autentici What If.
Storie incompiute di stelle che avrebbero potuto lasciare un segno indelebile, ma sono state fermate sul più bello, spesso da infortuni implacabili o contesti sbagliati.
Yao Ming – Rockets
Scelto con la prima assoluta al Draft 2002, Yao Ming conquista subito l’NBA: è All-Star già da rookie e simbolo globale grazie alla Cina. Tra il 2006 e il 2009 domina con oltre 22 punti, 10 rimbalzi e 2 stoppate a gara, combinando tecnica, visione e un QI cestistico raro per un centro di 2,29 metri.
Ma il suo corpo non regge. Fratture ricorrenti a piede e caviglia lo costringono a saltare oltre 250 partite in sei stagioni. Dopo aver saltato la stagione 2009/10 tra operazioni e ricadute, nel 2011, a soli 30 anni, dice basta.
Il talento c’era tutto, ma la fragilità fisica lo ha trasformato in uno dei più grandi What If della storia NBA.
Grant Hill
Scelto con la terza chiamata assoluta nel Draft 1994, Grant Hill entra in NBA come un predestinato. Nei primi sei anni ai Detroit Pistons è spesso paragonato a Magic Johnson per visione di gioco, leadership e versatilità. Viaggia a medie di quasi 22 punti, 8 rimbalzi e 6 assist a partita: uno dei pochi in grado di trascinare da solo una franchigia mediocre ai Playoff (3 apparizioni in cinque stagioni).
Nel 2000 firma con Orlando, dove avrebbe dovuto formare un duo leggendario con Tracy McGrady. Ma è lì che la sua carriera prende una piega amara: una caviglia fratturata mal gestita porta a una lunga serie di complicazioni, infezioni e ricadute. Nei successivi 4 anni gioca solo 47 partite, passando più tempo in sala operatoria che sul parquet.
Hill rinasce a Phoenix come role player solido, ma non tornerà mai quello che il mondo aveva intravisto nei suoi primi anni.
Andrea Bargnani
Andrea Bargnani è un caso diverso rispetto a Yao Ming o Grant Hill: il suo è un What If meno legato agli infortuni gravi e più a un mix di aspettative altissime e contesto sbagliato.
Nel 2006 Andrea Bargnani entra nella storia: è la prima scelta assoluta al Draft NBA, il primo europeo di sempre a ricevere questo riconoscimento. I Toronto Raptors scommettono su di lui come sul nuovo Nowitzki: un lungo moderno, con tiro da fuori, talento naturale e il potenziale per diventare una stella.
Il talento offensivo c’è: tocco morbido e letture intelligenti lo conducono a 15.2 punti con il 38% da oltre l’arco) nelle prime 7 stagioni. Ma Bargnani non riesce mai a diventare un giocatore franchigia. Fatica a rimbalzo (il suo career high è 6.2, stagione 2009/10), soffre in difesa e non ha il fisico per reggere l’urto di una NBA che sta cambiando, diventando sempre più veloce e fisica.
Dopo 7 stagioni, nell’estate 2013, passa ai Knicks: le sue abilità tecniche affascinano anche la Grande Mela ma l’illusione dura poco a causa dei problemi alla schiena che lo costringono a giocare soltanto 71 gare in due anni.
Nel 2016 chiude la sua avventura NBA ai Brooklyn Nets senza mai lasciare il segno e senza aver trovato un ruolo che valorizzasse davvero il suo gioco.
Penny Hardaway
All’inizio degli anni ’90, la NBA trova in Anfernee “Penny” Hardaway una delle sue stelle più luminose: playmaker alto, elegante, atletico, con una visione di gioco alla Magic e l’istinto di un realizzatore. Arriva a Orlando nel 1993 e, insieme a Shaquille O’Neal, dopo aver chiuso la stagione regolare da candidato MVP, trascina i Magic fino alle Finals del ‘95 rivoluzionando il gioco con uno stile spettacolare e moderno.
Penny è un fenomeno: All-Star per 4 anni consecutivi dal 1995 al 1999, con medie da 20+ punti, 7 assist, leadership e carisma da superstar. È il futuro della lega. Ma tutto cambia nel 1997, quando inizia il calvario fisico: infortuni cronici al ginocchio lo costringono a operazioni multiple.
Nel 2000 arriva la svolta cruciale: per cercare di risolvere una micro-frattura al ginocchio, Penny si sottopone a un’operazione delicata e anticipata, che però compromette irrimediabilmente le sue doti atletiche.
Prova a reinventarsi successivamente a Phoenix e New York, ma non tornerà mai quello che era. La sua carriera, chiusa nel 2008 ai Miami Heat, diventa un lungo tentativo di inseguire se stesso, senza mai ritrovarsi davvero.
Brandon Roy
Brandon Roy, scelto al sesto posto nel Draft 2006, esplode subito ai Portland Trail Blazers come una guardia versatile e talentuosa. Tre volte All-Star tra il 2008 e il 2010 (21 punti di media con 5.2 assist, 4.6 rimbalzi e 47% dal campo), Roy incanta con un mix di tiro, atletismo e leadership, diventando uno dei giovani più promettenti della NBA.
Ma il suo fisico tradisce il talento: problemi cronici al ginocchio sinistro, diagnosticati troppo tardi, si aggravano nel tempo. Dopo anni di dolore, operazioni e tentativi di combattere l’artrosi degenerativa, a soli 27 anni è costretto a ritirarsi nel 2013, incapace di competere ai massimi livelli.
Un finale troppo precoce per un giocatore che prometteva di dominare la nuova generazione, trasformandolo in uno dei più grandi “What If” della storia NBA.
Derrick Rose
Derrick Rose, scelto come prima scelta assoluta nel Draft 2008, arriva in NBA carico di aspettative enormi. Con la sua esplosività, velocità e abilità nel creare gioco, conquista subito il ruolo di leader dei Chicago Bulls.
Nel 2011, a soli 22 anni, diventa il più giovane MVP della storia della lega, segnando un traguardo che sembrava preludere a una carriera da leggenda. Rose combina atletismo devastante e un istinto cestistico fuori dal comune, rendendolo quasi impossibile da fermare.
Tuttavia, il suo cammino prende una piega dolorosa: nel 2012, durante Gara 1 del primo turno di Playoff contro i Sixers, subisce la rottura del legamento crociato anteriore del ginocchio sinistro, un infortunio gravissimo che lo costringe a una lunga riabilitazione.
Nel corso degli anni successivi, altri problemi fisici, tra cui una lesione al menisco, ne limitano pesantemente il rendimento e la continuità. Nonostante la forza di volontà, la caparbietà e i cambi di squadra (gioca con T’Wolves, Knicks, Pistons e Grizzlies), Rose non riesce mai più a ritrovare quel livello di dominio e costanza che lo aveva reso MVP.
La sua storia è quella di un talento cristallino, capace di momenti di grande magia, ma anche di una lotta costante contro il corpo che ha frenato la sua ascesa. Derrick Rose rimane uno dei più grandi “What If” non solo della storia NBA, ma anche di Chicago (che ha ritirato la maglia della sua leggenda): il campione che avrebbe potuto riscrivere la storia dopo Michael Jordan, ma che è stato ostacolato da infortuni implacabili.
Greg Oden
Greg Oden, scelto come prima scelta assoluta nel Draft 2007, arriva ai Portland Trail Blazers con un’immensa aspettativa. Considerato uno dei migliori prospetti nel ruolo di centro degli ultimi anni, Oden ha un fisico imponente, grande forza e una presenza difensiva dominante. Portland spera di aver trovato il pilastro per il futuro, un centro moderno capace di dominare sotto canestro.
Tuttavia, dopo 21 gare della stagione da sophomore, la sua carriera si trasforma presto in una lotta contro il proprio fisico. Già nel primo anno si manifestano problemi seri al ginocchio, che lo costringono a saltare gran parte della stagione e a subire molteplici interventi chirurgici. Gli infortuni cronici ne bloccano lo sviluppo: in sette stagioni tra NBA e tentativi di rientro, Oden gioca appena 105 partite.
Il talento c’è, ma il corpo non regge: Oden non riesce mai a dimostrare sul parquet il potenziale che aveva mostrato nei college. Il suo caso resta un monito su quanto gli infortuni possano cambiare il destino anche dei giocatori più promettenti.