Breve storia di Chris Paul

Il numero 3 sulla schiena, l’appellativo di Point God e un solo obiettivo in testa: il titolo NBA

Paul in azione coi Suns

Here comes the sun cantavano i Beatles e grazie ad un uomo di 183 centimetri, il sole è tornato anche in quel di Phoenix, squadra rivelazione della scorsa stagione che insegue il suo piccolo grande sogno. In Arizona, CP3 ha trovato una nuova giovinezza: lavorando ogni giorno come fosse il suo primo nella Lega ha portato la squadra ad un passo da vincere l’anello, fermato solo dalla straripante figura di Giannis Antetokounmpo.

I suoi colpi di genio hanno incantato gli spettatori da casa, la riapertura dei palazzetti ha dato modo al pubblico amico di intonare il coro “MVP” “MVP” “MVP” dopo ogni giocata. Dopo il mancato rinnovo di Ayton e una partenza non entusiasmante di Booker, il classe 1985 sta trascinando i Suns gara dopo gara.

Parlare di Chris Paul in poche righe sarebbe riduttivo e si cadrebbe probabilmente nel banale, per questo abbiamo scelto un percorso che racconta il nativo di Winston-Salem, Carolina del Nord nelle fasi salienti della sua carriera: dai 61 punti segnati in una partita liceale alla scelta numero 4 del Draft NBA 2005; da Lob City all’infortunio di Gara 5 contro gli Warriors degli invincibili.

A 36 anni la rinascita della point guard capace di cambiare il gioco a suo piacimento con personalità ed esperienza. Sorride tutta Phoenix, sorride soprattutto Christopher Emmanuel Paul.

L’origine di CP3 e i 61 punti

In una cittadina del North Carolina, il 6 Maggio 1985 dai genitori Charles Edward Paul e Robin Jones nasce Christopher Emmanuel Paul, conosciuto ai più come Chris Paul o CP3. Per chi lo segue dagli albori e lo ha sempre visto giocare con il numero tre stampato sulla divisa, può sembrare scontato che il suo soprannome derivi semplicemente dalle iniziali del nome e del cognome accompagnate alla cifra di cui sopra. Curioso invece venire a conoscenza del fatto che il suo nomignolo sia legato alla famiglia: infatti, erano loro a chiamarlo CP3 poiché prima di lui, in ordine di anzianità, venivano il padre Charles Paul Sr. e il fratello maggiore Charles Paul Jr., di conseguenza lui era il terzo componente (il più giovane) a possedere la lettera ‘C’ e la lettera ‘P’ nel nome e nel cognome.

Cresciuto in una famiglia agiata, spendeva le giornate dividendosi tra la pallacanestro nel cortile di casa e il lavoretto alla stazione di servizio di nonno Nat, il cui legame era così forte che Chris in futuro racconterà di come lui fosse il suo migliore amico. Le capacità del piccolo Paul con la palla a spicchi si notano sin dal principio e crescendo non fanno che migliorare.

Con la benedizione del nonno, entra a far parte della scuola del liceo nonostante agli occhi altrui sembrasse tutto fuorché un giocatore di pallacanestro, a causa della bassa statura e di una struttura fisica davvero piccola, tanto che all’inizio i coach erano scettici sul farlo giocare più per la paura di vederlo sbriciolarsi sul campo che per la mancanza di talento.

I primi due anni li trascorre con la squadra junior della West Forsyth. Sul campo è nettamente migliore degli altri, ma preoccupa il fatto che risulta essere sempre il più piccolo; nonostante questo al terzo anno viene inserito nel team principale e con medie di 25 punti, 5.3 assist e 4.4 palle rubate trascina i suoi alle semifinali di stato. In estate prende qualche centimetro (non molti in realtà) e viene convocato dalla selezione dei Kappa Magic con cui vince il titolo l’U-17 AAU e il premio di MVP della competizione.

Tutto procede a gonfie vele e per il senior year, l’ultimo del suo percorso liceale, ha in serbo numeri migliori dei precedenti. Mettersi in mostra e attirare gli scout delle università più prestigiose è l’obiettivo principale, inoltre nonno Nathaniel è convinto che il nipote sarà una prossima prima scelta NBA, quindi lo spinge a lavorare ancora più sodo per combattere il “difetto” dell’altezza in un mondo di giganti.

C’è sempre una punta di amaro in queste storie di campioni. Nel 2002, il giorno prima di una importantissima partita, il nonno di Chris Paul viene assassinato mentre sta lavorando. Un gruppo di ragazzi più giovani di CP si reca alla stazione di servizio per fare una bravata, ma Nathaniel Jones non ha intenzione di farsi prendere in giro e li invita ad andarsene via. I giovani, feriti nell’orgoglio dalle parole dell’adulto, tirano fuori le armi e sparano. Il signor Jones viene ucciso all’età di 61 anni. La notizia sciocca il diciassettenne Chris Paul, la cui reazione è quella di rimanere impassibile e apatico per le successive 24 ore. Il giorno della partita entra in campo accompagnato dallo spirito del nonno e come in trance dalle sue mani escono solo canestri: mid-range, triple, contestati, coast-to-coast, praticamente una furia sul parquet.

Arriva a segnare 60 punti prima di subire un fallo che lo manda in lunetta, realizza il primo e sono 61 come l’età a cui è venuto a mancare il suo “migliore amico”, la persona che lo ha spronato a fare meglio e lo ha portato a giocare quella partita. Il successivo tiro libero viene appositamente sbagliato, poi Paul si gira verso la panchina, chiede il cambio e una volta seduto si lascia andare ad un pianto a dirotto, accompagnato dagli applausi della palestra e dagli abbracci dei compagni, dell’allenatore e della famiglia accomodata a bordo campo.

Il giovane ragazzo è corteggiato dai college più prestigiosi della nazione. Sceglie Wake Forest, ateneo situato proprio in quel di Winston-Salem e che dieci anni prima era stato la casa di un certo Tim Duncan. Nel corso del primo anno viene eletto ACC Rookie of the Year registrando 14.8 punti, 5.9 assist e 2.7 palle rubate di media a partita. Al termine dell’anno da sopohomore, CP3 si rende eleggibile per il Draft NBA del 2005, viene eletto First Consensus All-America e con un grade point average (GPA) di 3.21 viene premiato Academic All-America. Il 2 Marzo 2011, l’università ha ritirato la maglia numero 3 in suo onore.

Dagli Hornets a Lob City

Scelto con la numero 4 dai New Orleans Hornets al Draft 2005, trascorre i primi due anni nell’Oklahoma, dove la squadra si è trasferita a causa dei danni commessi dall’uragano Katrina che ha messo in ginocchio l’intera Louisiana. Il suo anno da rookie si chiude con il titolo di miglior matricola a dispetto di una stagione poco edificante per la franchigia.

I numeri mostrati dal classe 1985 sono clamorosi: chiude al primo posto in punti segnati, assist, palle rubate e doppie doppie tra le matricole; registra una media di 16.1 punti, 5.1 rimbalzi, 7.8 assist e 2.2 palle rubate e nelle votazioni per il Rookie of the Year, solo uno dei voti per il primo posto viene assegnato al rivale Deron Williams, vincendo dunque quasi all’unanimità. Da sophomore gioca solo 64 partite a causa di un infortunio, ma stabilisce un nuovo record nella partita Rookie vs Sophomore con 17 assist e 9 palle rubate e migliora le sue statistiche nella stagione regolare.

Nei successivi due anni con la divisa degli Hornets, Chris Paul dà l’idea di essere onnipotente sul campo da basket: nel 2007-08 riceve la prima chiamata all’All-Star Game, porta la sua squadra a vincere per la prima volta 56 partite e chiude secondo dietro Kobe Bryant nella corsa all’MVP con 21.1 punti, 11.6 assist e 2.7 palle rubate di media ad allacciata di scarpe. Viene inserito nel primo quintetto NBA e nel primo quintetto difensivo, solo la sconfitta in gara-7 delle semifinali di Conference contro gli Spurs rovina la stagione perfetta di CP3.

La stagione 2008-09 inizia con la firma su un nuovo contratto che gli garantisce 68 milioni di dollari per i successivi quattro anni; durante la regular season arriva più volte ad un passo dalla quadrupla doppia (come contro i 76ers dove chiude con 27 punti, 10 rimbalzi, 15 assist e 7 palle rubate), stabilisce il record di partite consecutive con almeno una palla rubata (106), ma la post-season si chiude con una brutta figura al primo turno contro i Denver Nuggets.

La corsa per arrivare alle Finals non ha mai lieto fine, terminando spesso con eliminazioni premature, così Chris Paul all’ultimo anno di contratto e con una franchigia sull’orlo del fallimento chiede di essere scambiato. Qui la figura di David Stern ha un’importanza fondamentale: infatti, Paul ha praticamente le valigie pronte in direzione Los Angeles dove lo attendono Kobe Bryant e i Lakers per formare un dynamic duo da sogno. La franchigie sono già d’accordo sui giocatori da scambiarsi, ma il commissioner della NBA pone il veto e in quella che verrà ricordata come la trade più controversa della storia, la point guard vola sì in direzione California, ma per giocare con i cugini dei Clippers.

L’ormai esperto CP3 accetta il cambio d’aria e rivitalizza una squadra storicamente inesistente per il panorama cestistico. A Los Angeles finalmente esistono due team, perché al fianco del nativo di Winston-Salem ci sono un’ala esplosiva di nome Blake Griffin e un centro dominante di nome DeAndre Jordan. I tre con una serie di giocate spettacolari fanno guadagnare alla città l’appellativo di Lob City: le partite dei Clippers non sono più dei disastri, anzi i tifosi accorrono numerosi per vedere quali magie tireranno fuori dal cappello questi big three tra alley-oop, schiacciate contro la forza di gravità e passaggi dal coefficiente di difficoltà elevato.

Il sogno sembra potersi avverare in una delle sei stagioni trascorse in California. Qui la Point God, soprannome guadagnatosi per l’eccellente gioco nel ruolo di point guard, diventa il primo Clipper ad essere selezionato nel primo quintetto All-NBA da quando la franchigia gioca a Los Angeles; si guadagna il titolo di MVP degli All-Star Game nel 2013, porta la squadra a migliorare il proprio record di vittorie in una singola stagione anno dopo anno, firma una nuova estensione da 107 milioni di dollari per i successivi 5 anni, ma il risultato finale in post-season rimane lo stesso: eliminato.

Ad un passo dalla gloria

L’estate del 2017 inizia con la blockbuster trade che porta Chris Paul a Houston, percorso inverso fanno Lou Williams, Montrezl Harrell, Sam Dekker, DeAndre Liggins, Patrick Beverley, Darrun Hilliard e Kyle Wiltjer più una futura scelta al primo round e soldi. Insomma per acquisire la migliore point guard della Lega i sacrifici fatti sono tanti, ma la coppia Harden-Paul alletterebbe anche il più scettico e vederli contemporaneamente in campo ogni sera, giocando per la stessa squadra, è libidine pura.

Non c’è bisogno di perdersi in chiacchiere, perché i Rockets chiudono la stagione stabilendo il record di franchigia per vittorie in una sola stagione con 65, per la prima volta nella storia sono la più forte della Western Conference. In men che non si dica il team allenato da Mike D’Antoni si ritrova alle finali di Ovest dopo essersi sbarazzata in cinque gare sia dei Timberwolves sia dei Jazz.

Il duo funziona alla perfezione, Chris Paul arriva ad un passo dal traguardo per la prima volta in carriera. Di fronte c’è l’ultimo grande ostacolo chiamato Golden State Warriors, dopo di loro la strada sembrerebbe spianata, poiché i Cavaliers di LeBron hanno sì dominato nei play-off ad Est, ma una volta in finale non hanno speranze di alzare il Larry O’Brien Trophy.

James Harden e Chris Paul contro il super team composto da Kevin Durant, Stephen Curry e Klay Thompson, con la partecipazione di Draymond Green. Il cammino delle due squadre è speculare, anche gli Warriors si sono fatti strada chiudendo le serie con San Antonio e New Orleans in cinque gare, perciò gli ingredienti per una serie memorabile ci sono tutti.

I texani iniziano la serie tra le mura amiche e cercano di capitalizzare fin da subito il fattore campo; nonostante i 41 punti di Harden e la doppia doppia da 23 punti e 11 rimbalzi di Paul, dall’altra parte ci sono degli alieni e Golden State si porta a casa gara-1. Passano 48 ore e per Houston è già decisiva, sono certi che atterrare in California sotto 2-0 significherebbe subire un umiliante cappotto. Al Toyota Center questa volta non c’è storia, Durant segna 38 punti, ma i Rockets sono entrati in campo per vincere e pareggiano la serie.

Ci spostiamo in territorio ostile per l’esercito di D’Antoni e gara 3 non fa prigionieri: gli Warriors sono impossibili da fermare e vincono la sfida con uno scarto di oltre 40 punti, segnando una delle peggiori sconfitte in post-season per i Rockets. Con l’ultimo atto californiano, KD e gli Splash Brothers sognano di alzare il trofeo davanti ai tifosi avversari come se avessero preso il ruolo degli antagonisti in questo racconto.

Houston non è minimamente d’accordo e si prende lo scalpo degli avversari al termine di una partita al cardiopalma chiusa sul 95 a 92. Si torna in Texas, il team guidato da Steve Kerr sembra diventato vulnerabile, la difesa di Mike D’Antoni e l’attacco guidato dalla coppia Harden-Paul pare non avere punti deboli. Con il pronostico a loro sfavore, al termine di gara cinque, gli Houston Rockets sono avanti nella serie per la prima volta. La favola del super team può terminare già con la prossima partita, solo che c’è un ‘ma’ grande come una casa. A pochi minuti dal termine della quinta sfida, Paul sente tirare il quadricipite e si siede per terra.

I segnali non sono incoraggianti, la point guard si gira verso la panchina e fa segno di aver sentito tirare il muscolo. Chris Paul è ufficialmente fuori dai giochi per gara 6 e la eventuale sfida win or go home.

Come prevedibile, senza l’architetto le certezze crollano. Golden State rifila un sonoro 115-86 alla Oracle Arena. La decisiva gara-7 si disputa in Texas, sui volti dei ragazzi di D’Antoni però c’è solo la paura di vedere un sogno infrangersi sul più bello. Chris non ci sta e incita i compagni, dice loro di tenere duro, è l’ultimo step prima della finale dove lui avrebbe fatto di tutto per tornare e giocarla.

I Rockets entrano sul parquet con il coltello tra i denti e il primo tempo finisce 54-43 per loro; gli Warriors erano certi di trovare delle pecorelle smarrite, invece di fronte a loro c’è la squadra che li ha messi in difficoltà per tutta la serie. I razzi sono a 24′ dal traguardo, tornano in campo per fare il loro sporco lavoro come fatto per le precedenti sei partite.

Qualcosa però in quei quindici minuti di intervallo ha spezzato l’incantesimo e quelli che tornano sul parquet non sono i cinque mastini sguinzagliati da coach D’Antoni, sono ragazzi impauriti, spaventati dalla possibilità di lasciarsi scappare dalle mani una vittoria storica.

Il secondo tempo di Golden State è un clinic della pallacanestro, ma a Houston non entra più la palla. Il canestro sembra una buca di un campo da golf, giocatori come Gordon, Tucker e Harden solitamente sentenze dall’arco, diventano poco più che giocatori dilettanti. Sono 27 i tiri da tre consecutivi sbagliati. Ventisette!

La squadra in maglia rossa termina la partita con un misero 7/44 dalla lunga distanza, un 15% che verrà ricordato da tutti come la peggior percentuale nel tiro da 3 punti di una squadra in una finale di Conference. Gli uomini di Kerr trovando la tavola apparecchiata non possono fare altro che azzannare quello ciò che gli si presenta davanti e con un 101-92 eliminano gli Houston Rockets dopo una serie indimenticabile al meglio delle sette gare. Per Chris Paul è un’altra disfatta, questa volta ad un passo dal traguardo.

The Point God

Impossibile affibbiare la nomea di perdente ad una superstar del calibro di Chris Paul. La sfortuna ha giocato un ruolo fondamentale nei momenti chiave della sua carriera, ma bisogna dare merito agli avversari che hanno avuto più fame e forse erano maggiormente attrezzati per chiudere la stagione alzando il titolo di campioni NBA.

Nel corso degli anni il classe 1985 ha avuto la chance di giocare sui palcoscenici più importanti: ha “cresciuto” un team come gli Hornets giocando un basket spettacolare, portandoli ad un passo da una storica finale di Conference; ha messo sulla mappa l’altra sponda di Los Angeles, quella dei Clippers che hanno sempre visto i cugini dei Lakers trionfare, trionfare e ancora trionfare; con la divisa dei Rockets è stato così vicino alla gloria che tutti quanti si pregustavano la cerimonia degli anelli, con il più brillante al dito di Chris Paul.

Il capitolo Houston si è chiuso non certamente nel migliore dei modi, a causa del rapporto difficile con James Harden e di quel “peggior contratto della storia” che Tilman Fertitta (proprietario della squadra texana che disse esattamente queste parole) gli aveva fatto firmare.

Oggi però CP3 è un altro uomo, un altro giocatore. Ha zittito chi dava lo 0,2% di chance ai suoi Thunder di andare ai play-off, terminati invece al primo turno dopo una serie infinita di sette partite proprio contro la sua ex squadra. Infine l’approdo in quel di Phoenix, ancora una volta considerata una mossa “passatempo” per far scadere un contratto che nessuno vorrebbe vedere pesare sul salary cap; invece, di nuovo con il vento contrario, il nativo di Winston-Salem ha lavorato e da leader ha portato il team dell’Arizona ad appena due gare dal titolo NBA. Alzare quel trofeo sembra una maledizione destinata ormai a rimanere tale, ma se i Suns continuano a rimanere sulla mappa delle contenders lo devono ad un giocatore da 11.3 assist a partita, cifra che gli ha permesso di superare Steve Nash al terzo posto all-time per palloni distribuiti con 10,377.

Per chi non si fosse ancora convinto della qualità di Christopher Emmanuel Paul, ecco di seguito i riconoscimenti acquisti in 16 stagioni nella NBA

  • 11 volte All-Star (dal 2008 al 2016; 2020 e 2021)
  • NBA All-Star Game MVP (2013)
  • 4 volte All-NBA First Team (2008; dal 2012 al 2014)
  • 4 volte All-NBA Second Team (2009, 2015, 2016, 2020)
  • 1 volta All-NBA Third Team (2011)
  • 7 volte All-NBA Defensive First Team (2009; dal 2012 al 2017)
  • 2 volte All-NBA Defensive Second Team (2008, 2011)
  • Rookie of the Year (2006)
  • NBA All-Rookie First Team (2006)
  • 4 volte leader degli assist (2008, 2009, 2014, 2015)
  • 6 volte leader delle palle rubate (2008, 2009; dal 2011 al 2014)
  • 2 volte medaglia d’oro olimpica (Pechino 2008, Londra 2012)

Con affetto, The Point God.

ALTRE STORIE NBA

Leggi anche

Loading...